I costi nascosti della mancata prevenzione valgono 64mila euro a infortunio
di Erardo Meggiolaro, Sales Manager di D-Air lab
Lo dice IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni) in un report di qualche tempo fa: con la prevenzione gli italiani hanno un rapporto “distaccato” e si tratta di un fenomeno di vecchia data, le cui dinamiche sono andate col tempo peggiorando.
Il report sottolinea infatti come nel 2018, nell’assicurazione contro i danni – categoria più ampia e omnicomprensiva dell’assicurazione – fossero stati investiti 34 miliardi di euro, l’1,9% di quell’anno, in calo dello 0,5% rispetto al dato di 10 anni prima, e pari a meno della metà del dato OCSE (4,5%).
Nel 2023 l’importo è cresciuto raggiungendo i 38 miliardi di euro, ma solo per effetto dei rincari delle polizze: in termini percentuali il dato si attesta ancora in discesa rispetto a 5 anni fa, raggiungendo l’1,8%.
Un’attitudine italiana che affonda le radici in una serie di concause: la scarsa educazione finanziaria e assicurativa della popolazione (penultima posizione tra i paesi del G20), un reddito medio pro capite sotto il livello dei principali paesi occidentali, sistematica misallocation della fiducia (aspettativa nell’intervento pubblico che porta a vedere nello Stato “l’assicuratore di prima istanza”), la sfiducia verso le assicurazioni (a causa della scarsa chiarezza e trasparenza dei contratti) e un generale eccesso di fiducia verso se stessi e le proprie capacità (overconfidence).
Un modo di vedere le cose legato a doppio filo a quel bias comportamentale che fa valutare i costi per tutelarsi (economici, di tempo e di energia) in maniera distorta – ossia un costo puro e dunque uno spreco, non un investimento – e che si associano alla principale dissonanza cognitiva: il famoso “tanto a me non succede” particolarmente diffuso tra chi ripete ogni giorno la stessa attività.
Una distorsione (il rischio zero per definizione non esiste) tipica non solo dei singoli nelle loro scelte di vita ma spesso anche delle piccole e medie aziende domestiche: praticamente il 90% del tessuto produttivo italiano.
L’overconfidence che aumenta i rischi di incidenti sul lavoro
Questi meccanismi psicologici sono gli stessi alla base dell’approccio verso il tema della sicurezza sul lavoro anche a livello aziendale in Italia. Realtà nella maggior parte dei casi compliant rispetto a obblighi di legge, ma che spesso non considerano la protezione come un elemento cruciale e parte del modello di business dell’azienda stessa: ci si dota degli strumenti di base per rispettare la legge, ma non si valuta che un investimento maggiore in protezione si tradurrebbe in realtà in maggior utile per l’azienda.
Studi di associazioni di categoria dei datori di lavoro, di INAIL e del Progetto CO&SI (Costi & Sicurezza) evidenziano infatti che la spesa globale della “non sicurezza” ammonta ad una media del 3,5% del PIL, circa 45 miliardi che, diviso per il numero degli infortuni sul lavoro, porta a un costo medio per infortunio pari a circa 64.000 euro.
Qualche tempo fa il tema era stato affrontato dall’Agenzia Europea per la Sicurezza (Eu-Osha) nel report “The value of occupational safety and health and the societal costs of work-related injuries and diseases”, che indagava sugli impatti economici della sicurezza negli ambienti di lavoro, mettendo a confronto Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Italia e Polonia. Spesso, e soprattutto nel nostro Paese, i costi per la sicurezza non sono esattamente determinabili perché non è esattamente determinabile la reale incidenza economica di un infortunio. Oltre alle sanzioni vi è un elenco di “costi nascosti” tra cui la conseguente minore capacità produttiva, il lavoro straordinario dei colleghi, quello per le commesse slittate, il turn-over interno o riqualificazione. A ciò si aggiungono i giorni di assenza per infortunio insieme ai costi di immediata gestione dell’infortunio. Lo studio calcola che l’infortunio costa all’azienda circa 5 volte in più rispetto alla retribuzione del dipendente e conclude affermando che il piano di gestione della salute e sicurezza aziendale dovrebbe essere considerato al pari di altre voci essenziali nella contabilità e bilancio aziendale.
Abbandonare i bias protegge
Secondo Inail, che ha aggiornato i dati al 2023 nei giorni scorsi, i decessi sul lavoro sono oltre mille, invariati rispetto al 2022, a fronte di un numero di infortuni sul lavoro che invece è sceso del 16% a 585.356 casi dai 697.773 del 2022 (per effetto della minor incidenza dei casi Covid). Gli infortuni sul lavoro assorbono una percentuale dal 3% al 6% del PIL.
Il settore delle costruzioni si colloca al secondo posto in valore assoluto dopo il manifatturiero in termini di perdita di vite umane. Il 4% degli infortuni e il 10% dei decessi sul lavoro è causato da una caduta dall’alto e da lesioni alla colonna vertebrale.
«Con WorkAir ci occupiamo di protezione dei lavoratori in quota da molti anni. Per questa ragione visitiamo molte aziende e tocchiamo con mano come ciò che va oltre gli obblighi di legge, in termini di sicurezza, spesso venga vissuto come un eccesso di cautela che rallenta i tempi e impiega risorse “inutilmente” rispetto a un rischio che viene visto come lontano. Se già per il singolo il pensiero “tanto a me non succede” è ingenuo, per un’azienda – soprattutto se attiva nei lavori altezza – lo è particolarmente di più» dichiara Erardo Meggiolaro, Sales Manager di D-Air lab, startup fondata da Lino Dainese che utilizza come base la tecnologia airbag D-air (già utilizzata dai piloti della MotoGP) rendendo questa innovazione molto utile per proteggere i lavoratori.
Occorre, in molti casi, uscire dalla logica che ci fa credere che a noi, proprio a noi – singoli e aziende – non accadrà.
Safety Focus – Anno XI – Numero 10 – 28 aprile 2024