di Marcello PADOVANO
La Costituzione della Repubblica Italiana recita all’art. 27 che “La responsabilità penale è personale.”.
In questo articolo trova il suo imprescindibile fondamento (principio della personalità della responsabilità penale) l’intero diritto penale italiano: soggetto attivo del reato, e pertanto punibile, può essere solo e soltanto una persona fisica.
All’interno di questa struttura, permeata interamente dal principio della personalità, si è inserita nel 2001 una norma apparentemente in antitesi con questo dogma, ovvero il Decreto Legislativo 08/06/2001 n. 231.
Il Decreto in questione ha l’obiettivo di disciplinare la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato e si applica alle persone giuridiche ed alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
Si ponga attenzione, però, che tale responsabilità è sì diretta, ma non per questo può essere qualificata come responsabilità penale.
Per questa ragione, infatti, lo stesso D.Lgs. 231/2001, considerata le peculiarità dei soggetti cui è rivolto, indica all’art. 9 quali sono le sanzioni previste in caso di illecito amministrativo dipendente da reato: si va dalla pena pecuniaria a quelle interdittive (es. sospensione o revoca delle autorizzazioni, esclusione o revoca di agevolazioni o finanziamenti, divieto di pubblicizzare beni o servizi), dalla confisca alla pubblicazione della sentenza.
La pena pecuniaria di cui all’art. 9 va applicata per quote, in numero non inferiore a cento né superiore a mille: la quota è valutata da un minimo di €. 258,23 ad un massimo di €. 1.549,37 e va determinata in base alle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’effettiva affettività della sanzione.
L’art. 5 del succitato Decreto è degno di attenzione in quanto precisa che “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio”. Ciò significa che perché qualunque sanzione possa essere comminata ad un ente a causa della verificazione di un reato è necessario provare, anzitutto, che questo sia stato commesso da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente, da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei predetti soggetti.
In secondo luogo, occorre l’accertamento che la condotta antigiuridica abbia procurato un vantaggio, solitamente economico ed anche indiretto, all’ente.
È, dunque, con queste premesse che si può affrontare il caso concreto portato dalla sentenza n. 40033 del 27 settembre 2016, la sez. IV con cui la Corte di Cassazione ha condannato per omicidio colposo (art. 589 c.p.) due persone fisiche ed una persona giuridica, nella specie una S.r.l..
Per la precisione, la Suprema Corte non ha fatto altro che confermare, nella maggior parte dei loro contenuti, le sentenze di condanna emesse dal Tribunale di Milano prima e della Corte d’Appello di Milano poi.
Il fatto oggetto di causa riguarda un lavoratore il quale, impegnato nell’intonacatura delle aree di sbarco dell’ascensore di una palazzina ed in assenza di qualsiasi misura di protezione contro il rischio caduta, precipitava nel vano ascensore riportando lesioni gravissime che lo avevano portato di lì a poco alla morte.
I Giudici della Sez. IV hanno ravvisato nell’assenza di misure di protezione la prova del vantaggio maturato dalla Ditta appaltatrice.
Poiché i lavori commissionati venivano pagati “a corpo”, ovvero a stato di avanzamento, il completamento in tempi rapidi dei lavori di muratura senza il ripristino delle precauzioni disinstallate per il completamento delle opere di intonacatura, avrebbe accelerato il pagamento e lo smantellamento del cantiere, riutilizzabile quindi altrove con altri profitti.
La Suprema Corte, per il reato di omicidio colposo di ex art. 589 c.p., ha condannato ad 1 anno di reclusione l’amministratore della società affidataria dei lavori di costruzione della palazzina nella qualità di direttore tecnico dei lavori, a 9 mesi di reclusione il direttore del cantiere per la Ditta cui erano state subappaltate le opere di muratura.
La stessa Corte ha inoltre condannato la Ditta titolare in subappalto delle opere di muratura ai sensi del D.Lgs. 231/2001 artt. 5, 6, 7 e 25-septies (“Omicidio colposo o lesioni gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”) al pagamento di una pena pecuniaria di €. 64.500,00 a titolo di sanzione amministrativa e di una provvisionale di €. 300.000,00 (in solido con la Ditta subappaltatrice delle opere di intonacatura) in favore dei genitori e delle sorelle del defunto.
La Corte di Cassazione riassume il principio di diritto affermato nella sentenza con la seguente massima: “Ai fini della sussistenza della responsabilità penale della persona giuridica per l’illecito amministrativo dipendente ex art. 25-septies D.Lgs n. 231/2001 è necessario provare che l’autore del reato presupposto, o colui al quale tale reato è attribuibile, sia ricompreso in una delle categorie citate all’art. 5 dello stesso decreto. Tra tali soggetti, è riconducibile anche il “preposto di fatto”. Inoltre, è necessario che l’evento dannoso abbia comportato un beneficio in termini assoluti a vantaggio dell’ente o sia il risultato della mancata adozione delle idonee misure di prevenzione a fronte di un interesse dell’ente a porre in essere l’attività pericolosa. Tra gli interessi che rilevano a tal fine, e che devono essere dal giudice valutati ex ante, vi rientra anche quello di voler svolgere i lavori prestabiliti nel più breve tempo possibile, frequente nell’esecuzione dei contratti di subappalto.”.
Safety Focus – Anno III – Numero 14 – 14 Novembre 2016